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Vi presento un autore che non ho mai letto: Maurizio Sbordoni

Le interviste che nessuno vorrebbe mai fare

Maurizio Sbordoni è un autore che io non ho mai letto, per cui ritengo di avere tutte le carte in regola per recensire impeccabilmente, senza timore di potermi lasciare influenzare. Purtroppo il giornalismo ha oggi perso il suo lato romantico e rinnega del tutto la fantasia del ruolo. I recensori ormai sono arrivati al punto che non possono fare a meno di leggere i libri che sono chiamati a descrivere, con il prevedibile risultato di usare poi le stesse parole dell’autore, di indossare i suoi stessi stati d’animo, di partorire – infine – riassunti omologati di libri che nessuno si sentirà spronato a leggere. Schiavi della lettura, insomma!

Io, non avendo niente di suo, non corro il rischio di dire cose scontate. Posso quindi parlarvi di questo grande autore del XXI secolo senza preconcetti. Come faccio a sapere che Maurizio Sbordoni è un grande? La sensazione trasuda. Non ci sono regole, ma solo certezze.

Ma partiamo dall’inizio, o meglio dal fondo. Mi sono accostato a Maurizio Sbordoni, classe cristallina, età indefinita (no, in realtà malelingue invidiose sostengono sia egotico) dietro autorevole imbeccata. Ma questa è una storia che non va raccontata. Passiamo oltre. Mai svelare chi ti presenta chi. Si corre il rischio di entrare in un mondo di nessuno, popolato da plebei incolti e patrizi romani.

Ma non divaghiamo. Maurizio Sbordoni. La sua giornata è divisa in tre: lavoro, scrittura e golf, e sicuramente non in questo ordine.

Il primo libro di cui si abbia notizia è del 2010, stampato a Civitella in Val di Chiana, luogo ameno non distante da casa mia. Guarda che coincidenza! Si intitola Mi chiamo Edgar Freeman (Editrice Zona, 2010). Il protagonista è un bambino down che indaga sull’apparente suicidio di un vicino di casa. Ma neanche il tempo di cominciare che viene sbattuto in un istituto. Libro introvabile da tempo. Copie vaganti zero. Si vocifera che una sua fan di Vasto abbia rifiutato cento euro pur di tenersi la sua. Beh, sarà la solita “opera prima introvabile”. Un classico. La copertina è mostruosa, ma all’opera prima non si guarda in bocca! Clamorosa la sezione finale dei “non ringraziamenti”. Dice molto. Ah, già, ma io questo libro non l’ho mai né visto né letto. L’ho solo sentito dire.

Becco in chat l’autore a notte fonda. Forse è stanco, fatto sta che si lascia andare. So che sta curando un’avventura editoriale autogestita. Ne vorrei però sapere di più. Il nome è tutto un programma. Ma i programmi a volte sono criptati, specialmente nel digitale terreste.

“Simone, sai perché Stocazzo editore avrà successo? Perché intercetta in maniera inequivocabile un disagio diffusissimo, quello dell’autore frustrato che non si sente supportato dall’editore. Ma io sono un autore, non un editore. Anzi, forse sono solo un lettore.”

Sì, ma che autore/lettore sei in realtà?

“Non lo so, e non lo sai neanche tu non avendomi mai letto. E anche questo è parte di una sintomatologia che fa del mondo editoriale un malato in fin di vita. Il mondo editoriale – per come è strutturato in questo momento di contingenza economica e culturale in un paese che lo scorso anno ha visto un italiano su due non leggere neanche un libro, e anche per questo costretto a stampare sempre più libri, cartonati zeppi di parole al loro interno che si leggono da sinistra a destra se non sei giapponese, tomi o libretti che inquinano l’aria e l’anima – è destinato a implodere, inghiottendo se stesso.”

Un mondo editoriale che morirà presto, quindi?

“Non morirà: è già morto. Io, da autore, non ho frustrazioni, non incolpo nessuno, non ho rivincite o rimpianti. Quello che ho avuto è esattamente quello che dovevo avere, come tutti, in ogni campo professionale. E quello che non ho avuto, in proporzione al mio presunto talento – parola che odio, in quanto la gente passa più tempo a rivendicarlo piuttosto che ad alimentarlo – è stato solo in conseguenza di miei comportamenti, scelte più o meno consapevoli, e qualche cazzata. Scrivo da poco, ma leggo da quando ho capito che gli occhi servono anche a quello.”

Stavo soffrendo ma mi hai interrotto, di Maurizio Sbordoni (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013).

Come siamo arrivati a questo?

“È andata più o meno così: mia mamma tossisce di una tosse che non transita, e mio padre le fa fare una lastra. Tumore ai polmoni. Le mie sorelle piangono, mio padre finge di avere tutto sotto controllo e io non sapendo che fare mi ricordo quella cosa degli occhi e li spalanco osservando ogni cosa, non mi sfugge nulla. E ne scrivo, per nove mesi. Mia mamma muore e dopo sei mesi esce Stavo soffrendo ma mi hai interrotto. La mia agente dell’epoca lo manda a sei editori (mi ricordo, a memoria, tutti i loro nomi). Lo vogliono tutti e sei. L’agente cinguetta: “aizziamo un’asta! Lo diamo a chi offre di più!”
Mia mamma è morta, però. Non è deceduta, trapassata, non è spirata, passata a miglior vita, andata a guardare le margherite dalla parte delle radici. E’ morta proprio. Alla fine scelgo la San Paolo dopo aver ricevuto una toccante mail del suo editor, Riccardo Ferrigato. Mi dice, tra l’altro, che in tram si è dimenticato di scendere per leggere il mio libro, ed è arrivato al capolinea – capolinea. Che carino.”

E il libro vende?

“Vende qualcosa come venticinquemila copie in due mesi scarsi, quando io alla fine di agosto chiedo indietro i diritti ceduti, cosa che ottengo il 10 settembre 2013. Rifiuto la candidatura allo Strega e strappo, materialmente, con le mie mani, un contratto con una società di produzione che aveva acquistato i diritti per farne una fiction in sei puntate – credo sia merito di queste due cose che circola un file segreto tra giornalisti, editor, correttori, agenti ed editori con i nomi di centinaia di scrittori, tra cui il mio. Accanto a Maurizio Sbordoni c’è scritto: geniale, ma ingestibile. Insomma, pazzo.
È il periodo in cui mi telefonano tutti, tranne quella mia ex che prima o poi, spero, una telefonata me la faccia: un noto direttore editoriale di una grande casa editrice mi invita a cene, cenette, cenucole, citandomi nomi che mi suonano nuovi e di cui, francamente, non mi frega nulla. “Uno come te non può mancare”, e non è importante che non lo sappia, com’è, un tipo come me. Per lui, non posso mancare. Stacco il telefono e mi ritiro in campagna a scrivere. Mia mamma è morta, e io mi alzo dalla sedia solo per mangiare, pisciare o sgranchirmi le gambe, perché per fumare posso rimanere seduto.”

Quarks, di Maurizio Sbordoni (Roma, Elliot, 2018).

Poi subentra un altro editore, giusto?

“Scrivo sei romanzi, una decina di racconti, tanta robaccia e tanta roba buona, almeno credo, tra cui Pococondriaco. Ritorno a Roma e per una serie di coincidenze e fatalità, cedo Quarks alla Elliot.

Ho voglia di uscire di nuovo, ma ovviamente non mi faccio illusioni. Voglio solo uscire, voglio solo che ci sia un altro mio libro in giro.”

E poi che è successo?

“È successo che un giorno mi arriva il rendiconto del venduto da parte della casa editrice. Per il lavoro che ho fatto (nella filiera editoriale, tutto, tranne stamparlo) ho guadagnato praticamente zero.”

Zero?

“Zero. Ma non è questo il punto. Se vuoi guadagnare del denaro buttati in politica, o ruba, anche non in politica, non metterti certo a scrivere. Il punto è che gli amici della casa editrice continuano a inviarmi via mail rendiconti aggiornati. A un certo punto gli ho chiesto di smetterla. Avevo il terrore che mi inviassero una fattura da pagare entro 60 giorni. A giorni, forse, sarei stato io a dovere dei soldi a loro. Quel giorno è nato Stocazzo Editore. Anche se la genesi dell’idea è di dieci mesi prima.”

Raccontamela

“Ha a che fare con un’oliva verde e un padre stronzo. L’oliva verde è il frutto dentro al quale c’era una scheggia di nocciolo che mi ha frantumato un dente durante un aperitivo. L’impianto costava 2500 euro – anche fare il dentista non sarebbe male, eh – e io non li avevo. Il padre stronzo è il mio che si è rifiutato di prestarmi i soldi per l’operazione. In quel momento ho capito che dovevo inventarmi qualcosa.”

Siamo alla fine. Le interviste troppo lunghe stancano. Un’intervista a regola d’arte non deve in realtà svelare nulla sull’intervistato. Il lettore, alla fine, ne deve sapere meno di prima. Così si cura l’interesse, agendo sulla curiosità. Facendo leva sulle parole non dette, sulle domande non poste. Ovviamente, le risposte originali dell’intervistato sono state tutte opportunamente modificate, di modo che nulla di quanto appare nei dialoghi sia in realtà neppure lontano parente di ciò che è successo veramente tra i due. Abituatevi all’idea che le interviste che leggete sui giornali sono sempre false, spesso sono soltanto un esercizio letterario del giornalista che vuol far vedere che il vero protagonista è lui. Gli occhi si ingannano da soli.

Considerate queste chiacchiere come un primo assaggio con un autore che rivedremo. Cose grosse stanno bollendo in pentola per Sbordoni. A primavera arriveranno le rondini giuste. No, non se ne può parlare qui. Grossi editori lo hanno ormai individuato, difficilmente gli riuscirà di scappare stavolta, anche se è la cosa che fa meglio. No, nomi e cognomi non se ne possono fare. “Non ora, non qui” (direbbe Erri De Luca). Presto per fargli un’intervista bisognerà passare dall’ufficio stampa. Peggio: bisognerà leggere i suoi libri.

Pococondriaco (Stocazzo Editore) si può comprare soltanto contattando direttamente l’autore su Facebook. Io ci farei un pensierino. Una vocina dal di dentro mi dice che un giorno sarà una rarità. Non vorrete mangiarvi le dita….